La pratica della psicoterapia
Nella pratica clinica, il processo terapeutico si propone di promuovere un cambiamento accompagnando la persona nel conseguimento di un nuovo stato di equilibrio che non si limiti a una risoluzione degli aspetti sintomatici del disturbo, ma che coinvolga elementi della propria identità “sentita” e “narrata”[1] (cfr. Cionini, 2013b). Il fatto di non considerare il sintomo come “bersaglio” diretto del lavoro terapeutico deriva non soltanto dall’idea che un cambiamento esclusivamente sintomatico sia a rischio di non mantenersi nel tempo, ma anche che la sintomatologia – pur nella sofferenza che comporta – rappresenti il modo migliore che la persona ha trovato per mantenere il proprio equilibrio sistemico, nel far fronte a eventi percepiti (più o meno consapevolmente) come soggettivamente scompensanti (Cionini,1998; Cionini, Ranfagni, 2011).
I presupposti del costruttivismo e della fenomenologia privano il terapeuta della possibilità di utilizzare i criteri di giusto/sbagliato, vero/falso, razionale/irrazionale rispetto ai modi di pensare/sentire/agire del paziente e rendono improponibile l’idea che egli possa offrire qualsiasi significato alternativo ”migliore” rispetto a quelli costruiti dalla persona.
L’obiettivo del terapeuta diviene allora, in primo luogo, quello di comprendere olisticamente l’altro nella sua complessità e particolarità: il suo modo di essere nel mondo. A tal fine il terapeuta – evitando l’uso delle etichette nosografiche – si propone di cogliere il “senso” della logica interna dell’altro e di costruirsi una immagine del modo in cui la persona attribuisce significato alle proprie esperienze nel presente, come effetto ricorsivo dell’insieme delle esperienze della sua storia passata.
Nella conduzione del processo terapeutico vengono alternate procedure conversazionali (in termini maieutici, fenomenologici o ermeneutici, in funzione degli obiettivi momentanei) a procedure esperienziali e immaginative finalizzate, queste ultime, a una maggior presa di contatto del paziente con l’esperienza del “momento presente” (Stern, 2004) a livello corporeo e affettivo-emotivo (Cionini, 2013b).
La conversazione maieutica è finalizzata ad aiutare la persona ad acquisire una maggiore consapevolezza meta-cognitiva rispetto a sé e al proprio modo di costruire gli eventi. Il terapeuta, “ponendo domande”, invita il paziente a porsi come osservatore di se stesso in terza persona, nel tentativo di costruire una spiegazione rispetto ai propri processi di attribuzione di significato. Il linguaggio utilizzato è quello della “prosa”, ovvero prevalentemente sequenziale e logico.
La conversazione fenomenologica è finalizzata invece alla comprensione del terapeuta rispetto al paziente, e del paziente rispetto a se stesso. In questo caso, mettendo da parte il tentativo di “ragionare su…” si utilizza prevalentemente un linguaggio più simile a quello della poesia, proponendo processi associativi e/o utilizzando sensazioni proprie e/o costruendo o sviluppando immagini/fantasie/metafore proposte da ciascuno dei due attori conversazionali. Il paziente viene invitato a prendere contatto, in prima persona, con le sensazioni, e lo stato del Sé, attivo in quel preciso momento.
Nella conversazione ermeneutica il terapeuta può: a) proporre “interpretazioni” (sempre e comunque in termini ipotetici/dubitativi) a partire da sensazioni che gli sono arrivate e/o da comprensioni che ritiene di aver avuto rispetto a ciò che il paziente ha “espresso” con le parole o con il corpo o b) riprendere “pezzi” di una narrazione episodica del paziente, accostandoli a sensazioni e significati, emersi successivamente nella conversazione o da ricordi attivati associativamente, per proporre nuovi, possibili “ponti di significato”.
Le procedure esperienziali e soprattutto immaginative hanno l’obiettivo di aiutare la persona a soffermarsi e focalizzare l’attenzione su ciò che sta sentendo, nel momento presente, a livello emotivo, affettivo e corporeo. Possono sia essere incluse all’interno della conversazione fenomenologica sia proponendo alla persona di immaginare situazioni fantastiche a partire da sensazioni e immagini corporee. In questo caso, si ricorre talvolta a un cambiamento di setting (il paziente su una poltrona reclinabile, con il terapeuta al suo fianco) e a una breve induzione di trance (v. pag.8). Allo stesso scopo può essere talvolta utilizzata la procedura del sogno da svegli guidato (cfr. Cionini, 1991, 2013).
Particolare rilevanza assume la relazione terapeutica, considerata il principale strumento di cambiamento. Il terapeuta, persona cui il paziente si rivolge in un momento di particolare difficoltà, è una potenziale, importante, figura di attaccamento rispetto alla quale il paziente tenderà a riattivare le stesse aspettative che ha nei confronti delle sue attuali figure di riferimento. Contemporaneamente, il terapeuta deve essere consapevole del fatto che non è, e non può essere, un “osservatore neutrale” di ciò che avviene nella relazione ma che la co-determina, con la sua soggettività. In quanto osservatore partecipante, deve analizzare la propria interazione con l’altro, nel momento in cui vi partecipa, ponendo una costante attenzione sia ai sentimenti e alle tendenze all’azione evocate in lui da quella persona sia all’effetto che questi possono avere nella regolazione interattiva della relazione. Essere in contatto con sé grazie a una sufficiente consapevolezza delle proprie modalità di funzionamento, e quindi in grado di discriminare quanto ciò che sta sentendo possa essere ricondotto a proprie modalità stereotipiche di interpretare e agire e quanto a ciò che sta avvenendo nel “Noi” della relazione; a queste condizioni, le sue sensazioni ed emozioni divengono importanti strumenti, potenzialmente utilizzabili, per la comprensione dell’altro e per la conduzione del processo terapeutico.
È soprattutto in presenza di disturbi dissociativi della coscienza che la relazione assume particolare rilievo nel processo di cambiamento. Per lo sviluppo di un senso integrato di sé è necessario che le interazioni intersoggettive fra il bambino e le figure di attaccamento siano risultate comprensibili e che il bambino si sia sentito riconosciuto e “rispecchiato” nella sua specificità e soggettività, così che le sue esperienze emotive e affettive possano essere state costruite all’interno di una sensazione di fondamentale unitarietà del Sé, consentendo il costituirsi di una identità personale coerente. Esperienze precoci e ripetute di mancata conferma dei propri stati emotivi e affettivi possono aver fatto sentire alcune parti di sé come non accettabili, in quanto non accolte e rappresentate nella mente dell’altro, portando il bambino, e poi l’adulto, a disconoscerle, a diffidarne e a non rappresentare la “realtà della propria esperienza”. In questi casi la relazione e il setting possono divenire, per il paziente, il “luogo” nel quale è possibile fare nuove esperienze relazionali di conferma – prevalentemente implicita – di quegli stati del Sé sentiti come “non-me” così da riuscire a rientrare in contatto e ricontestualizzare elementi del proprio passato, integrandoli nella propria immagine di sé nel presente e in un possibile futuro.
A partire dal presupposto che l’avanzamento terapeutico si attua più probabilmente e nuclearmente attraverso la condivisione di significati impliciti, una particolare attenzione è posta da parte del terapeuta alle dimensioni extra-linguistiche della comunicazione. Ciò che passa durante la conversazione va ben oltre il significato semantico delle parole, poiché è soprattutto dalla forma espressiva utilizzata nel pronunciarle (il ritmo dell’eloquio, il tono e il volume della voce, nonché i micro e macro movimenti corporei che, di necessità, accompagnano le parole) che vengono veicolate le dimensioni implicite di significato. L’uso del corpo del terapeuta, come un’attenzione specifica a quello del paziente, diviene così un altro degli strumenti del lavoro terapeutico (v. articolo riportato a partire da pag. 8).
[1] Per “identità narrata” ci si riferisce a ciò che ciascuno è in grado di dirsi a parole rispetto a sé e alla propria esperienza di vita, per “identità sentita”, viceversa, ciò che sappiamo di noi soltanto a livello implicito.
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