La formazione degli psicoterapeuti in un’ottica narrativo-ermeneutica
Partiamo dall’idea che la formazione professionale per diventare terapeuti sia un percorso non diverso, nei suoi presupposti, da quanto avviene in un processo psicoterapeutico. Così come, in una psicoterapia narrativo-ermeneutica, si agisce nella relazione con il cliente in modo da favorire l’esplorazione della conoscenza personale e soprattutto l’elaborazione di modi alternativi di costruire sé stessi e la propria relazione con gli altri (Chiari, 2002), analogamente si procede nella conduzione della formazione.
Infatti, in un percorso formativo narrativo-ermeneutico, si opera per promuovere da parte degli allievi l’esplorazione della conoscenza della teoria, favorendo l’elaborazione di modi alternativi di costruire sé stessi e gli altri.
Guidati da questo presupposto, ci proponiamo di avventurarci in questo racconto dell’esperienza formativa utilizzando una “imbarcazione” speciale, un invito di un seguace di George A. Kelly (1955), fondatore della Teoria dei Costrutti Personali, matrice teorica da cui si è sviluppata la psicoterapia costruttivista ad orientamento narrativo-ermeneutico:
“Provate ad immaginare le azioni del cliente come coraggiosi esperimenti anziché come comportamenti disadattivi” (Leitner, 1988)
“Provate ad immaginare…”
A chi è rivolto questo invito?
Provate a considerare questa frase come un invito rivolto ad ognuno di noi, allievi, terapeuti, didatti, pazienti; ad immaginare che, qualunque sia il nostro ruolo, possiamo provare a metterlo in gioco nelle diverse relazioni (formative, terapeutiche) coerentemente con i nostri presupposti teorici, guidati e ispirati da essi.
“… ad immaginare…”
Come allievi, come didatti, come terapeuti e come pazienti l’invito è quello di provare a entrare nelle nostre imprese personali e professionali con l’atteggiamento di un “romanziere che inizia la sua esplorazione del mondo” (Kelly, 2014): egli è disposto a fidarsi della sua immaginazione, a creare ipotesi di vita verosimili, non è interessato ad “accumulare prove fattuali atte a sostenere la genericità dei personaggi e dei temi” per sostenere le sue ipotesi, così come farebbe un cultore delle “scienze esatte”.
Nella nostra proposta formativa vi invitiamo ad esplorare insieme le implicazioni di una ipotesi condivisa: “Supponiamo che io voglia fare lo psicoterapeuta…“.
Il nostro non è un invito ad essere altri da sé, ma piuttosto a pensarci ricchi di possibilità, ad allargare i confini della nostra conoscenza, ad affacciarci alla finestra e a guardare con più creatività la complessità propria e altrui.
All’interno della nostra cornice teorica perdono di senso questioni tipo: “qual è la personalità adatta a fare lo psicoterapeuta?”, “quali sono le caratteristiche/i comportamenti adeguati?”. La questione è riformulata come una ipotesi “sperimentale” di questo tipo: “supponiamo che io voglia fare lo psicoterapeuta. Cosa possiamo considerare significativo rispetto a questo, in che modo possiamo porci delle domande per arrivare ad esserlo?“
Nel rimanere abbarbicati alla realtà oggettiva e all’oggettivo modo di rappresentarla rischiamo continuamente di infrangerci contro la nostra inadeguatezza, perseguiamo qualcosa che non è perseguibile, miriamo ad una irraggiungibile quanto fantomatica perfezione; se poniamo l’oggettività tra parentesi (Maturana e Varela, 1987), e proviamo ad abbandonare la tentazione della certezza a favore del dubbio assumendo che tutto ciò che conosciamo non è scindibile da colui che conosce, il senso dell’inganno verrà meno. Non possiamo essere altri da ciò che siamo, vano è il pensare di poter simulare: in ogni caso, spontanei o meno, trasparenti o mascherati, il nostro modo di agire nelle relazioni rivelerà qualcosa di noi, sarà il nostro modo di proporre noi stessi, di esserci. Abbandonato allora l’illusorio tentativo di poter essere oggettivi, neutrali, ragionevoli, potremo sentirci liberi di interpretare, di partecipare ad una azione comune portando la nostra visione, personale, di parte, irragionevole nella misura in cui può essere distante dal senso comune, ma lontani dall’essere inadeguati, in quanto non più proprietari esclusivi delle nostre ipotesi, bensí parti di una relazione in cui i confini tra ciò che è mio e ciò che è tuo sbiadiscono a favore di un Noi.
“… le azioni…”
Noi consideriamo le azioni come inter-azioni, le convers-azioni tra le persone come ESPERIENZE o processi di esperienza dove azione e conoscenza stanno in una relazione di causalità circolare (Chiari & Nuzzo, 2010).
La circolarità tra conoscenza e azione è un presupposto fondante il processo formativo e terapeutico in una prospettiva costruttivista ermeneutica: il tentativo dei didatti, così come quello dei terapeuti, è quello di favorire una direzione dei processi di esperienza costruendo ipotesi anticipatorie e la speriment-azione delle stesse, sia all’interno del gruppo-classe che all’esterno (tirocini, lavoro, clienti esterni). Alla luce delle verifiche successive alla sperimentazione, le ipotesi di conoscenza formulate possono essere confermate e stabilizzate oppure revisionate e ricostruite verso nuove interessanti ipotesi.
Le proposte teoriche, come ipotesi di conoscenza, sono presentate agli allievi come esperienze per essere poi sperimentate e ricostruite alla luce delle verifiche personali. Non è insolito, nelle aule della Scuola Costruttivista, sentire utilizzare espressioni quali “abbracciare la teoria” o “incarnare la teoria”. Incarnare la teoria ci rimanda a quanto le azioni delle persone possano essere espressioni ed elaborazioni della stessa. È di nuovo nella relazione con l’altro che possiamo sperimentare e verificare la percorribilità delle nostre ipotesi teoriche: la teoria non è un qualcosa che sta “fuori” dalle persone, o “sopra” di esse, oppure un rigido insieme di regole.
La nostra teoria di riferimento è un rigoroso quanto fluido modo di comprendere le persone. La nostra definizione di disturbo è nei termini di un arresto del movimento del Sistema Persona; se la teoria stessa perdesse il suo essere in movimento e in continua trasformazione, grazie alle nostre interpretazioni di essa, finirebbe con l’essere una teoria “sofferente”. Il considerare la teoria come un continuo movimento, rigoroso, certo, ma pur sempre un movimento, è un nostro modo di essere in-azione, di essere parte agente e partecipante di ciò che illustriamo.
“… delle persone…”
Parafrasando ancora Kelly, noi tutti, pazienti, terapeuti, didatti e allievi, consideriamo noi stessi come PERSONE, ci riconosciamo un’identità, una integrità e una continuità nel tempo, e ci riconosciamo una qualche responsabilità/causalità nel modo in cui ci muoviamo; ci vediamo come AUTO-INVENTATI ed AUTO-INVENTIVI, costruiamo noi stessi, viviamo immersi in un continuo processo di costruzione e ricostruzione.
Provate quindi a pensare alle persone come a delle forme di MOVIMENTO, nel loro DIVENIRE, e di essere voi i primi a scoprire qual è la vostra forma di movimento e in che modo essa si intersechi, incontri, si sviluppi in relazione al movimento degli altri. Possiamo considerare il percorso formativo come un’avventura di gruppo, condivisa con altre persone con le quali poter creare un nuovo modo di muoversi, un divenire professionale: “essere uno psicoterapeuta”.
Non come un percorso di insegnamento in gruppo, ma un processo di cambiamento di gruppo: il gruppo viene inteso come un insieme di persone che ipotizzano di guardare sé e gli altri come persone che si auto-inventano nella direzione del “supponiamo di fare gli psicoterapeuti”; un gruppo di “ricercatori” che condividono l’interesse e l’investimento in questa ipotesi e che su di essa costruiscono una impresa comune.
Il percorso di gruppo apre quindi la possibilità della conoscenza della propria forma di movimento e di quelle degli altri membri nella direzione comune, attraverso la co-costruzione del processo di “divenire psicoterapeuti”.
“come coraggiosi esperimenti.”
Quali alternative diventano percorribili nel pensare alle azioni delle persone come a coraggiosi esperimenti?
Proviamo a considerare il termine “coraggio” nel suo significato di “far fronte a qualcosa che comporti un rischio” (Vocabolario Italiano Treccani). Qual è il rischio, quindi? Potremmo rischiare di perdere il nostro “adattamento” (Piaget, 1971), o la nostra “organizzazione” (Maturana e Varela, 1987) nel continuo flusso del divenire, nel nostro movimento. Rispetto a questo rischio, terapeuti e clienti, didatti e allievi, collaborano nella stessa direzione e contribuiscono al sostegno e alla legittimità del preservare il proprio adattamento alla vita.
Come terapeuti, provare a considerare le azioni (compresi i disturbi e i sintomi) del cliente come coraggiosi esperimenti per far fronte al rischio di perdere il proprio adattamento alla vita può consentirci di agire terapeuticamente, non nella direzione di una correzione o eliminazione dei sintomi e del disturbo, ma nella direzione di sostenere il tentativo del cliente di mantenere un adattamento percorribile attraverso la creazione di alternative con cui possa far fronte a tale rischio e aprire alternative di movimento che non minino la possibilità di vivere e di adattarsi.
Come didatti, come allievi, considerare le azioni degli altri coinvolti con noi nel processo formativo come coraggiosi esperimenti apre alla possibilità di costruire relazioni “non istruttive”, non finalizzate ad apprendere o far apprendere il lavoro del bravo psicoterapeuta, bensí ad immaginare insieme un altro/nuovo modo di mettere in gioco sé stessi, che non sia “un modo altro da sé”, né da un punto di vista personale (dovrei essere una persona diversa per fare lo psicoterapeuta), né professionale (dovrei imparare e applicare un insieme di tecniche terapeutiche).
Se consideriamo il coraggio come una dimensione sovraordinata comune a tutte le persone, il nostro abituale modo di costruirle cambia radicalmente.
La formazione in un’ottica costruttivista ermeneutica considera le azioni dei terapeuti come doverosi atti etici. La responsabilità di un terapeuta non inizia e non termina con la sua efficacia, bensí con il senso del suo interagire con l’altro. La nostra è una teoria che pone al centro il rispetto degli altri, declinabile in ogni gesto terapeutico e non come intento declamato.
Sta nelle radici del nostro pensiero la nostra posizione etica: la nostra è una psicologia della comprensione piuttosto che una psicologia di produzione di conoscenza personale (Mair, 1998).
Bibliografia
Chiari, G. (2002). In M. L. Nuzzo (a cura di), Costruttivismo e psicoterapie. Cinque Scuole a confronto (ibidem). Ancona: Pequod.
Chiari, G., & Nuzzo, M. L. (2010). Constructivist psychotherapy: A narrative hermeneutic approach. London: Routledge.
Gadamer, H. G. (1972). Verità e metodo. Milano: Bompiani.
Kelly, G. A. (1955). The psychology of personal constructs, Vols 2. New York: Norton.
Kelly, G. A. (2014). Il linguaggio dell’ipotesi: lo strumento psicologico dell’uomo. Costruttivismi, 1, 17-27.
Leitner, L. M. (1988). Terror, risk, and reverence: Experiential personal construct psychotherapy. International Journal of Personal Construct Psychology, 1, 251-261.
Maturana, H. R., e Varela, F. J. (1987). L’albero della conoscenza. Un nuovo meccanismo per spiegare le radici biologiche della conoscenza umana. Milano: Garzanti.
Piaget, J. (1983). Biologia e conoscenza. Saggio sui rapporti fra le regolazioni organiche e i processi cognitivi. Torino: Einaudi.
Mara Ognibeni, Cristina Sassi